In bici, così come nella vita, non bisognerebbe mai portarsi dietro del peso superfluo, vero?
Io, da quando vado in bici, sono sempre stata afflitta da quella che potrei definire una sorta di “sindrome dell’impostore ciclistica”.
Vivo nel terrore che presentandomi all’uscita di gruppo della domenica mattina o in griglia di partenza ad una granfondo qualcuno mi punti il dito contro dicendo: «Ma ti sei vista? Tu non sei una ciclista, via di qui!»
Non so contare le volte in cui, vedendomi in foto accanto ai miei compagni di squadra, mi sono vista completamente fuori luogo, troppo “grossa” per stare in mezzo a loro.
Né so contare quelle in cui mi sono sentita dire, magari alla fine di una Granfondo in cui mi ero guadagnata un risultato di tutto rispetto: «Se tu riuscissi a perdere qualche chilo, voleresti.»
Non so quante volte ho pagato per un pranzo o una cena con i compagni di squadra in cui mi sono alzata affamata da tavola per l’ansia di mostrare che stavo cercando di perdere peso.
Quante volte mi sono sentita a disagio per le mie spalle larghe e i miei muscoli troppo ingombranti. Eppure su una bici me la sono sempre cavata bene nel mio piccolo mondo amatoriale, molto spesso meglio di cicliste molto più leggere di me.
Se qualcuno mi vede faticare in sella pensa subito che sia per colpa del mio peso eccessivo per questo sport, salvo poi incontrarmi quando sono allenata e fare battute su quanto io sia veloce in salita. Sottintendendo, ovviamente, “nonostante” il mio aspetto, e ignorando che ho toccato il mio peso più alto nell’anno in cui ho fatto i miei risultati migliori in gara.
Con questo non voglio assolutamente dire che il peso corporeo sia ininfluente in bici, questa sarebbe una sciocchezza.
La fisica non mente. E la fisica dice che per sollevare un corpo, quindi per portarlo da una quota ad una quota superiore, serve una forza tanto più grande quanto maggiore è il suo peso. Siamo tutti edotti sull’importanza del peso/potenza e su quanto conti questo aspetto a livello di prestazione.
Per tanto tempo mi sono fatta una colpa di non essere abbastanza pronta a “sacrificarmi” in questo senso, mentre sono tanti i ciclisti che curano in modo ossessivo l’alimentazione.
Chi frequenta ambienti dove la competizione è un obiettivo importante sa che è normale trascorrere intere uscite in bici a parlare di dieta e di alimentazione.
Sa che l’amatore medio spende una fortuna in integrazione, prodotti dietetici e nutrizionisti al solo scopo di perdere peso.
Perché, diciamocelo, i ciclisti spesso vanno dal nutrizionista per perdere peso, e non per raggiungere il peso ideale o per migliorare la loro alimentazione.
Ovviamente poi dall’altra parte si spera che ci sia un professionista capace di fare educazione alimentare e di spiegare che non sempre perdere peso è consigliabile, possibile e sano. In quel caso il ciclista, spesso, abbandona il nutrizionista e fa di testa propria.
Ho subito infinite conversazioni sul cibo, sulle diete e sulla perdita di peso. Ho visto affrontare uscite da otto ore con mezza barretta, donne di cinquant’anni trascorrere una cena sociale in compagnia di mezzo piatto di insalata scondita, uomini di quaranta far scadere una lattina di birra vinta in gara nel frigo e altre esagerazioni simili.
Esagerazioni, giusto? Eppure ho continuato a sentirmi per anni in colpa perché non riuscivo ad “esagerare” nello stesso modo, come se questa estrema devozione, questo sacrificio di sé sull’altare della propria passione fosse l’unico modo di meritarmi un posto in questo sport.
Al punto che per anni ho coltivato un disturbo alimentare che fluttuava nel tempo a seconda di quanto mi impegnavo a meritare quel posto.
Solo l’allontanamento dall’ambiente delle Granfondo e di certa esasperazione agonistica mi ha permesso di lasciarmelo alle spalle e di smettere di cercare di affamarmi. Di sicuro, in problemi così complessi entrano in gioco anche fattori di altra natura, insicurezze ed esperienze personali, non lo metto in dubbio. Ma quando mi sono imbattuta nell’intervista recentemente rilasciata da Evie Alice Richards alla rivista Pinkbike, sono letteralmente caduta dalle nuvole.
Già da tempo Richards ha reso noto il difficile rapporto con il controllo del peso e il cibo che l’hanno accompagnata per anni portandola a quella che è stata riconosciuta come una vera e propria condizione clinica denominata RED-S (relative energy deficiency in sport), ovvero una costante carenza di energie dovuta a scarsa alimentazione e sovra-allenamento, che fa sì che il corpo inizi a “risparmiare” sulle funzioni fisiologiche di base (ad esempio con la scomparsa del ciclo mestruale nelle donne come nel suo caso).
Se Richards sembra aver ritrovato un rapporto più sano con il cibo e con il proprio corpo grazie ad un lungo lavoro su di sé, supportata da professionisti che la seguono da anni, dall’intervista si deduce che lo stigma dei preconcetti legati ad alcune discipline del ciclismo aggiunge un’ulteriore difficoltà al suo percorso.
Evie Richards dichiara di non pesarsi da due anni e i suoi risultati provano che la sua ossessione per il peso non era funzionale al suo rendimento.
Eppure sostiene che pur sapendo di essere oggi più sana di molte altre atlete, continua a lottare con la sensazione di dover essere magra come le sue rivali ogni volta che gareggia. Anche nel suo caso si tratterebbe, come per qualunque comune mortale, di una “banale” insicurezza personale?
Stiamo parlando di un’atleta eccezionale, attuale campionessa del mondo di cross country, già due volte campionessa del mondo U23 di ciclo-cross, nonché più banalmente di una ragazza di una bellezza indiscutibile.
Siamo proprio sicuri che si tratti solo di lei?
Richards sostiene che, semplicemente, nel suo sport certi problemi sono considerati normali. Negli anni sono stati diversi gli atleti, soprattutto nel ciclismo su strada, a loro volta afflitti da disturbi alimentari che hanno più o meno apertamente denunciato come questi problemi siano molto presenti nell’ambiente ciclistico.
Marianne Vos ha ammesso di essere stata afflitta da anoressia, scendendo sotto i 49 kg di peso (la Vos è alta 168 cm).
La fresca vincitrice della seconda edizione della Parigi-Roubaix donne, Elisa Longo Borghini, ha dichiarato in un’intervista alla Gazzetta dello Sport del 2021 che l’anoressia è un problema di tutto il ciclismo a cui andrebbe prestata più attenzione.
Per fortuna la nostra Elisa dimostra di avere una testa anche più resistente delle gambe quando afferma: “Se uno mi dice culona non me ne frega niente, conta se arrivo prima in salita”.
Senza addentrarci in una questione complessa e aprire quella che dovrebbe essere ben più di una parentesi, lasciamo un attimo i grandi campioni e torniamo a me e al mio personale senso di disagio per la mia forma fisica. Quando si parla di ciclismo amatoriale si pensa che l’approccio allo sport dovrebbe sempre e comunque mettere in primo piano il divertimento e il benessere. Eppure, incredibilmente, a volte anche qui ritroviamo le stesse dinamiche “malate” del ciclismo professionistico.
E le accettiamo come se fossero normali.
Se nel professionismo sarebbe fondamentale intervenire per impedire che gli atleti si trovino in qualche modo costretti a mettere a repentaglio la propria salute fisica e mentale per continuare a lavorare, noi tutto sommato abbiamo la fortuna di poter prendere coscienza di certi fenomeni e di scegliere, dato che come spesso si dice, nessuno ci paga per andare in bici.
Personalmente, in modo simile a quanto descritto da Evie Alice Richards, mi rendo conto di vivere il disagio di sapermi finalmente fuori da certi meccanismi ma di sentire ancora il giudizio di chi semplicemente mi guarda e vede una ciclista “fuori forma”, senza sapere che proprio questa è la mia forma e che non ho intenzione di vivere perennemente a dieta per diventare ciò che non sono.
E sentirmi finalmente ben accetta.
Il desiderio di far parte di un mondo, in questo caso quello del ciclismo, che fa sentire in qualche modo speciali, può diventare tanto forte da mettere sotto pressione e rendere estremamente competitivi, ma è importante capire dove ha senso che la competizione si esprima e dove invece si sta solo subendo un condizionamento un po’ subdolo che non può portare nulla di buono a noi, al nostro benessere e al nostro sport.
Coerentemente con il mio modo di vivere, voglio che andare in bici mi diverta, che mi faccia stare meglio con me stessa (e non peggio), che mi dia forza e fiducia nelle mie capacità, che mi stimoli in senso positivo a migliorarmi e mi permetta di condividere con gli altri qualcosa che mi appassiona.
Tutto il resto è, questo sì, un inutile peso superfluo che anche inconsciamente non farà che peggiorare la mia esperienza sulla sella e nella vita.
Credo che essermene liberata sia qualcosa che dovevo al ciclismo e allo sport in generale, a quello che mi ha regalato in tanti anni e che non si lascia ridurre al conto dei chili sulla bilancia, dei chilometri fatti o delle medaglie messe al collo.
Per quanto possiamo impegnarci a rincorrerlo con tutti i nostri mezzi e sforzi, tutto quello che si merita e che si quantifica è destinato prima o poi a finire. A differenza dell’amore.
E tra me e la bici non c’è una solo una storia, ma c’è vero amore.
Qui trovate un approfondimento sul rapporto tra andare in bici e perdere peso:
Qui altri articoli che parlano di alimentazione.
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Sull'autore
Silvia Marcozzi
Vivo da sempre in equilibrio tra l’amore per lo studio e le parole - ho due lauree in lettere e un dottorato in lingue - e il bisogno di vivere e fare sport all’aperto. Mi sono occupata a lungo di libri e di eventi. Dieci anni fa sono salita su una bici da corsa e non sono più scesa, divertendomi ogni tanto a correre qualche granfondo. Da poco ho scoperto il vasto mondo dell’off-road, dal gravel alla Mtb passando per le e-Mtb, e ho definitivamente capito che la mia sarà sempre più una vita a pedali.